Sempre più spesso si parla di agricoltura rigenerativa, ma ridurla a un insieme di pratiche – come sovescio o minima lavorazione – rischia di essere fuorviante, soprattutto perché, come sappiamo, la rigenerativa va oltre le tecniche conservative, peraltro sempre più conosciute e riscoperte negli ultimi anni.

L’agricoltura rigenerativa dev’essere vista, come da concezione originale del Rodale Institute, piuttosto come un cambio di paradigma nella gestione dell’intera azienda agricola, considerata come un sistema complesso con al centro il suolo, ecosistema fatto di una miriade di interazioni diverse che se rafforzate portano poi a numerosi benefici nella gestione colturale.

Nel Cilento, territorio caratterizzato da forte biodiversità e sistemi agricoli policolturali, il progetto europeo Eit Food ha trovato un contesto favorevole per sperimentare questa transizione. Dal 2020 il progetto ha messo in piedi 14 corsi in Italia, con oltre 500 partecipanti tra agricoltori e tecnici, che hanno generato una rete di consulenza e sperimentazione su circa 1.500 ettari. Consulenze individuali, partecipate e gruppi di lavoro (“farmers group”) sono gli ingredienti che il progetto ha portato per favorire lo scambio diretto di esperienze tra agricoltori e tecnici.

Due realtà emblematiche di questo percorso sono la cooperativa Nuovo Cilento e l’azienda agricola La Petrosa, che hanno intrapreso strade diverse ma convergenti verso la rigenerazione.

Giuseppe Cilento

Cooperativa Nuovo Cilento

Nata nel 1976 con 15 soci, oggi la cooperativa conta 420 soci e 2.500 ettari, con produzioni che spaziano dall’olio extravergine ad altre frutticole, agli ortaggi. «L’agricoltura organica e rigenerativa non è uno slogan, ma un percorso che parte dal suolo e attraversa tutto l’ecosistema», ricorda l’azienda. Dal 2015 la cooperativa ha avviato un programma di compostaggio della sansa e dei residui di potatura, sviluppando con il Cnr e altre istituzioni una miscela originale che oggi produce 150 tonnellate l’anno di compost distribuito negli oliveti e negli orti dei soci. A questo si è aggiunto il lombricompostaggio, che trasforma sansa e scarti agroalimentari in un ammendante ricco e stabile, spiega l’azienda.

Compost ottenuto da sansa e residui di potatura dell’ulivo, Cooperativa Nuovo Cilento, San Mauro Cilento (Sa)

Sul fronte della difesa, viene impiegato un caolino autoprodotto, integrato con adesivanti naturali da fichi d’India e inula viscosa, utilizzato contro la mosca delle olive e gli stress termici. La gestione idrica si basa sul keyline design, con solchi che seguono le linee chiave dei terreni collinari, migliorando l’infiltrazione delle acque piovane e riducendo l’erosione.

Oltre a sovescio e minima lavorazione, i soci seminano leguminose negli oliveti (dove Giuseppe Cilento, fondatore della cooperativa, dice di aver “censito” ben 107 specie) e adottano la potatura a vaso policonico per ridurre l’alternanza e migliorare la sanità delle piante. Anche l’allevamento segue criteri rigenerativi, con pascolo razionale gestito per lotti. «Dopo anni di rigenerativa – spiega Cilento – nei nostri oliveti sono comparse leguminose spontanee come sulla e medicago: un segnale che il suolo ha ritrovato equilibrio».

Uno degli uliveti della Cooperativa Nuovo Cilento

La cooperativa rappresenta da quasi cinquant’anni un presidio territoriale, capace di tenere insieme all’agricoltura un forte senso di comunità e identità locale: dal primo olio Dop della Campania fino alla biofattoria didattica e alla ristorazione, Cilento ha sempre affiancato alla produzione un impegno nella promozione culturale ed enogastronomica del Cilento.

La Petrosa

Sessanta ettari certificati bio da oltre dieci anni, con seminativi, oliveti (1.700 piante), agrumeti, ortaggi, frutteti e allevamenti di capre da latte e bovini a duplice attitudine. La sensazione è che non manchi nessuna filiera all’azienda La Petrosa, guidata da Edmondo Soffritti. «Il suolo è una risorsa fondamentale», spiega Soffritti. «È il più grande serbatoio di carbonio del pianeta dopo gli oceani e da esso dipende il 90% di ciò che mangiamo. Per questo non lavoriamo più con i singoli elementi, ma con un approccio ecosistemico, che mette il suolo al centro».

L’azienda coltiva, nello specifico, oltre a orticole e frutticole, grano tenero e duro, orzo, avena, farro e legumi per un totale di circa 20 colture (contro le due della fase convenzionale precedente alla transizione, mais da foraggio e triticale). Le rotazioni includono ceci, fagioli, favino e pisello proteico, raccolti anche a seme. Il tutto è integrato da un sistema di allevamento i cui foraggi sono interamente aziendali. Tra le tecniche di agricoltura rigenerativa adottate:

  • Colture di copertura e digestato biologico da aziende vicine per fertilizzare i seminativi, con eliminazione quasi totale degli input esterni.
  • Compost autoprodotto da scarti aziendali e locali, impiegato in orti e frutteti.
  • Biofertilizzanti prodotti dal siero del latte residuo della caseificazione, ricco di lattobacilli, trasformato in inoculo biologico miscelato con polvere di roccia e cenere.
  • Pascolo razionale per ridurre l’impatto sul suolo e migliorare la fertilità biologica.
  • Sistemazione idraulica in keyline per regimare le acque collinari.
Edmondo Soffritti

Una transizione difficile ma efficace

È lo stesso Soffritti però a ricordare che la transizione non è stata semplice. «Abbiamo perso raccolti nei primi tre-quattro anni e dovuto cambiare macchine». Ma oggi i risultati Soffritti – e le sue sorelle, insieme gestiscono l’azienda – li tocca con mano altrimenti, lascia intendere, sarebbe tornato lui per primo sui suoi passi.

La prima cosa che i numeri fanno saltare all’occhio sono le spese per i mezzi tecnici, di molto ridotte: da 15.000 a 6.000 litri di gasolio annui, costi di lavorazione e raccolta scesi a 200-300 €/ha (contro i 1.000 €/ha del convenzionale). Sul piano energetico, l’azienda è autosufficiente al 90%. «La Petrosa vende il 95% dei suoi prodotti entro 20 km, solo l’olio raggiunge mercati più lontani», aggiunge soddisfatto Soffritti. Questo ovviamente grazie al fatto che La Petrosa riesce a chiudere tutte le sue filiere.

Opportunità per le aree marginali

Le esperienze della Cooperativa Nuovo Cilento e La Petrosa insegnano che entrare nell’ottica rigenerativa può richiedere una transizione lunga e complessa, che non prevede ricette universali. Ogni azienda deve sperimentare, adattarsi al contesto pedoclimatico, investire in conoscenza e innovazione e dialogare con il territorio. In particolare, sembra che l’agricoltura rigenerativa sia destinata a raggiungere con più facilità i contesti marginali, com’è nel caso di queste due aziende, il subappennino campano.

Le realtà multifunzionali sono ovviamente avvantaggiate, altrimenti sono comunque chiamate a diventarlo nella scia della concezione originale dell’agricoltura rigenerativa, che prevede la comunicazione dell’azienda agricola con il territorio in cui opera. Qualora servisse un’ulteriore prova: l’agricoltura rigenerativa non è una moda passeggera, ma un percorso impegnativo che integra al massimo le dimensioni ambientali, economiche e sociali.