Di recente l’Agricoltura rigenerativa è diventata popolare nella letteratura sulla produzione sostenibile e l’intensificazione. Non esiste una definizione univoca e la terminologia è stata adattata dalla maggior parte degli stakeholder agricoli che desiderano vedere l’agricoltura trasformarsi in sistemi ecologicamente sostenibili, perché la ritengono inclusiva di pratiche che possono contribuire allo sviluppo e al mantenimento di processi ecologici, gli unici in grado di supportare sistemi di produzione sostenibili.

Alcuni portatori d’interesse desiderano che questo risultato venga riconosciuto innanzitutto agli agricoltori, mentre altri propendono verso l’impatto di servizi multifunzionali, tra cui i risultati ambientali ed ecologici a livello paesaggistico e sociale. Affinché un’attività agricola basata sulla coltivazione di terreno fertile sia economicamente, socialmente e ambientalmente in equilibrio, deve prima di tutto essere ecologicamente sostenibile e rigenerativa, riflettendo il più possibile il funzionamento degli ecosistemi naturali.

Per valutare l’efficacia della sostenibilità ecologica e della capacità rigenerativa è indispensabile considerare i tre paradigmi alternativi dell’agricoltura convenzionale basata sulla lavorazione del terreno, diffusamente praticata a partire dalla Rivoluzione Verde; l’agricoltura biologica basata sulla lavorazione del terreno convenzionale (e la sua versione politicamente orientata dell’agroecologia) e l’agricoltura conservativa basata sulla semina su sodo, sulla copertura permanente della superficie del suolo con residui e le rotazioni colturali diversificate. Tra questi sistemi di gestione, appare evidente che solo l’agricoltura conservativa considera le funzioni ecologiche, per soddisfare nel tempo i criteri agronomici ampiamente applicabili, incrementare il livello di salute del suolo, l’efficienza produttiva e risultati economici competitivi.

Le specie resistenti

L’agricoltura conservativa ha da sempre avuto nel glifosate un prezioso alleato, tanto che quando sono stati sollevati dei dubbi sulla tossicità di questa molecola, automaticamente si è pensato alle difficoltà che avrebbe avuto l’agricoltore che intendeva adottare le tecniche di agricoltura conservativa senza più la possibilità di ricorrere al glifosate. Oggi quei dubbi sono stati in parte fugati, dal momento che la Commissione Europea ha deciso di prorogarne l’autorizzazione fino al 15.12.2033 (Reg. 2660/2023), pur ponendo alcune limitazioni alle dosi massime di prodotto utilizzabili, alle misure di protezione dell’ambiente da adottare, oltre che al grado di purezza della sostanza attiva e al limite di presenza di alcune impurezze. A destare “nuova” preoccupazione è però la comparsa di alcune infestanti resistenti al glifosate, perciò abbiamo sentito il parere di alcuni esperti a riguardo.

«L’ultima novità riguarda la presenza di popolazioni di Lolium spp resistenti al glifosate sulle stoppie del grano segnalata in Inghilterra – spiega Giuseppe Zanin dell’Università di Padova –. Le popolazioni resistenti sulle colture arboree possono essere in qualche modo controllate con altri erbicidi e altri metodi (meccanici ecc.), mentre sulle stoppie o sui letti di semina in regime di agricoltura conservativa, dove oltre al Lolium ci possono essere altre specie annuali o perenni, più o meno sviluppate, la gestione si complica.

Si verrebbe quindi a creare una sorta di incrinatura sulla gestione, da riprogrammare, dei letti di semina in agricoltura conservativa. Per esempio, va prestata attenzione, in questa nuova evenienza, all’intervallo di tempo che deve intercorrere tra la distribuzione dell’eventuale miscela antiresistenza (glifosate + altro erbicida con meccanismo di azione diverso) o di altri erbicidi e la semina della coltura. È da sottolineare che l’utilità del glifosate si mantiene anche in presenza di una specie resistente, ovviamente va fatta una attenta valutazione della nuova situazione malerbologica. Per quanto riguarda il panorama italiano, non ci sono particolari novità, nel senso che le resistenze al glifosate sono note ed effettive da oltre un decennio, soprattutto nelle colture arboree dove è stato usato in maniera continuativa e la gestione della resistenza in questi ambiti è già nota.

Tornando al contesto dell’agricoltura conservativa, per prevenire l’insorgenza di resistenze in questo sistema colturale è necessario utilizzare al meglio il glifosate (dosi, epoca d’impiego in relazione allo stadio delle malerbe, attenzione alle condizioni climatiche…)  e soprattutto monitorare per bene la situazione in campo, tenendo presente che, se sfuggono più specie, è probabile che si tratti di un trattamento eseguito male e/o in condizioni ambientali non ottimali; se sfugge invece solo una specie, che negli anni scorsi era controllata dall’erbicida, e se detto erbicida in precedenza è stato impiegato in maniera continuativa, è da sospettare l’insorgenza di un evento di resistenza, e allora è consigliabile eseguire velocemente degli approfondimenti. In ogni caso non si deve ritrattare con lo stesso erbicida le malerbe sfuggite e si devono mettere in atto tutti i sistemi per limitare la disseminazione delle malerbe sfuggite».

«In tutti gli ambiti applicativi il glifosate deve essere utilizzato in modo appropriato e corretto, per ottenere i risultati attesi ed evitare l’insorgenza di fenomeni di resistenza e la contaminazione delle acque – riferisce Aldo Ferrero dell’Università di Torino –. La resistenza nei confronti del prodotto riguarda, oggi, nel nostro Paese soprattutto le infestanti Lolium spp., Conyza spp. e occasionalmente, Eleusine indica, presenti nei vigneti, frutteti, oliveti e noccioleti, oltre che nei terreni in cui si pratica la semina diretta, senza lavorazione. Il problema della resistenza richiede l’adozione di pratiche gestionali, basate sull’uso combinato dei diversi strumenti agronomici e meccanici disponibili, in grado di limitare la diffusione dei semi e dei propaguli delle malerbe a maggior rischio di resistenza (ad es. sfalci prima della disseminazione) o ricorrendo ai non numerosi erbicidi specifici, efficaci nei confronti delle stesse specie.

Dal punto di vista agronomico, il glifosate costituisce, ancora oggi, uno strumento di notevole utilità per la gestione della vegetazione spontanea in ambito agricolo ed extra-agricolo, per la sua notevole efficacia, versatilità ed economicità, con poche alternative equivalenti. Va però osservato che il rinnovo europeo dell’autorizzazione se da un lato ha permesso di eliminare ogni preoccupazione sui possibili rischi sanitari dell’erbicida, dall’altro ha reso necessaria l’adozione di ragionate strategie gestionali, allo scopo di assicurare un sufficiente controllo delle infestanti anche alla ridotta dose d’impiego stabilita per gli usi agricoli».

Pressione selettiva

«Quello che si riscontra a livello malerbologico in un dato momento è il risultato di tutte le pressioni selettive che ci sono state nei periodi precedenti – aggiunge Francesco Vidotto dell’Università di Torino –. Se quindi riscontriamo una resistenza adesso, è dovuta al fatto che si è mantenuta una determinata pressione selettiva che portava verso quella direzione, come ad esempio l’uso ripetuto delle stesse molecole o di molecole con lo stesso meccanismo d’azione.

Più è diversificata questa pressione selettiva, e questo può voler dire variazione di erbicidi o di miscele di erbicidi, rotazione colturale e alternanza di lavorazioni, anche a profondità diverse, più cambiamo rapidamente nel tempo le condizioni ambientali nelle quali si devono sviluppare le malerbe e più creiamo una flora infestante disomogenea, sicuramente meno resistente. Certo, nel caso del sodo rinunciare al glifosate diventa molto complicato: si può pensare all’acido pelargonico come alternativa, ma non è una molecola sistemica, quindi su specie importanti come per esempio la sorghetta ha scarsa efficacia, oltre a comportare dei costi completamente diversi.

In questi casi, forse, non ha senso mantenere la semina su sodo troppo a lungo, nel senso che è una pratica sicuramente vantaggiosa per certi aspetti, ma sulle infestanti probabilmente non rappresenta una soluzione sostenibile nel lungo periodo».

Tempi e dosi consoni

«Finora un vastissimo elenco di prove scientifiche ha messo in luce la sicurezza ambientale di questa molecola – conclude Vincenzo Tabaglio dell’Università Cattolica di Piacenza – se ovviamente usata nei modi giusti e nelle dosi corrette. Qualora si ottenessero nuovi riscontri di pericolosità, invece, sarà del tutto doveroso sostituirla.

Nel caso dell’agricoltura conservativa e in particolare del no-till, il controllo delle malerbe potrebbe essere effettuato ricorrendo ad altri diserbanti, che però costringerebbero ad aumentare il numero dei principi attivi e il costo dei trattamenti, magari usando molecole dal profilo tossicologico più complicato. Al momento attuale, quindi, credo che il glifosate sia ancora un’opportunità da non eliminare. Si tenga però presente che il controllo delle malerbe, anche in agricoltura conservativa, non si basa esclusivamente sul diserbo chimico, ma si affronta con un insieme di strumenti, coordinati fra loro, che vanno dalla rotazione colturale alle lavorazioni, alle cover crop, alla purezza delle sementi, e a tutte le modalità che l’agronomia ha sempre insegnato.

Quanto al rapporto fra agricoltura conservativa e resistenze, è vero che si riscontrano casi di resistenza di alcune specie di malerbe, così come anche su terreni gestiti in maniera convenzionale, ma spesso vanno fatti risalire a una scorretta esecuzione del diserbo chimico, per esempio utilizzando gli stessi principi attivi, in dosi non consone, in numero eccessivo di trattamenti, senza curarsi di variare il programma chimico.

È opportuno ricordare, infine, che l’agricoltura conservativa si realizza rispettando almeno tre cardini fondamentali, il primo dei quali è rappresentato dall’adozione di rotazioni sufficientemente ampie, per cui anche l’utilizzo dei prodotti fitosanitari risulta meno intensivo e soprattutto variato; insomma, le resistenze sono sì un rischio, ma un rischio calcolato che penso si possa gestire.

E concludo dicendo che, se cominciassimo ad adottare per davvero e insieme i tre criteri dell’agricoltura conservativa (minimo disturbo del suolo, copertura permanente del suolo e rotazione colturale), l’alternanza dei prodotti e la riduzione delle dosi, grazie anche all’agricoltura di precisione, allora non è tanto il rischio, quanto la gestione del rischio a differenziare una coltivazione intelligente da una coltivazione stolta».