Quindici regioni, 480 milioni di euro, 330mila ettari. Sono i tre numeri che, in estrema sintesi, fotografano l’agricoltura conservativa finanziata con fondi Psr in Italia. Minima lavorazione e semina su sodo sono le due pratiche oggetto della maggior parte degli investimenti, Piemonte, Lombardia, Puglia, Campania e Sicilia le regioni che hanno messo a disposizione più soldi per gli agricoltori, non tutti utilizzati. L’apertura dei bandi è avvenuta con un po’ di ritardo rispetto al previsto, tra la fine del 2015 e la primavera di quest’anno. Per quanto riguarda nello specifico l’agricoltura conservativa e la semina su sodo, l’adesione delle aziende agricole è stata a macchia di leopardo, con buone risposte in Veneto e nel Lazio e una maggior freddezza in Emilia-Romagna e Lombardia. A influenzare il grado di partecipazione degli agricoltori è stata la differenza, anche notevole, riscontrata tra una Regione e l’altra nella composizione dei bandi e alla parziale sovrapposizione dell’agricoltura conservativa con altre pratiche della Misura 10. Ci sono diversità nei contributi ad ettaro riconosciuti, nelle lavorazioni ammesse e nei vincoli di durata e di superficie minima e massima da destinare alla conservazione. La Regione Molise, ad esempio, ha aperto il bando per le misure agro-climatico-ambientali ma ha vietato l’uso del glifosate. La tendenza delle aziende è quella di privilegiare le misure di minima lavorazione rispetto a quelle di semina su sodo, in quanto concedono più libertà d’azione in campo. La scarsa partecipazione ai bandi Psr non deve ingannare: in Italia l’agricoltura conservativa è molto praticata, soprattutto lo striptill, tecnica che non tutti gli enti finanziano. «Agricoltura conservativa e di precisione insieme innescano un circuito virtuoso di competitività, redditività e sostenibilità delle produzioni rispetto agli attuali sistemi di agricoltura assistita – afferma Michele Pisante, professore ordinario di Agronomia all’Università di Teramo e vicepresidente della Società italiana di Agronomia – per incentivare gli agricoltori a partecipare ai bandi, le Regioni avrebbero dovuto sostenere i sistemi di subirrigazione, perché la cosa più importante della conservativa è la gestione colturale». Per fare il punto della situazione e cercare di capire vantaggi e svantaggi di queste tecniche abbiamo fatto una ricognizione da nord a sud della penisola sentendo i diretti interessati: gli agricoltori.

Lazio, i cereali rispondono bene
Una delle aziende che per prima ha creduto nelle tecniche di sod seeding è “La Castelluccia”, gestita dal presidente di Confagricoltura Roma Massimiliano Giansanti. Quasi 1.500 ettari seminati tra l’agro romano, Ardea, Pomezia e Viterbo, di cui l’80% con la tecnica del sodo. «Abbiamo fatto la prima prova di semina diretta su sodo nel 2008 – racconta – e da allora non siamo più tornati indietro, estendendola a quasi tutte le nostre colture. Gli effetti positivi sono stati molteplici: dalla riduzione dei costi dovuta
alle minori lavorazioni, quindi a un minor uso di carburante e di ore dei trattoristi, al minor sfruttamento delle macchine stesse. Poi c’è l’aspetto ambientale, con una sensibile riduzione delle emissioni, la possibilità di standardizzare le lavorazioni e pianificare la gestione dell’azienda in maniera precisa, infine i risultati in campo: nel giro di pochi anni le rese sono aumentate del 20% un po’ per tutte le colture». La semina su sodo consente a Giansanti di sfruttare in pieno le giornate lavorative e di terminare le semine entro Natale a prescindere dalla piovosità, mentre con le tecniche tradizionali, in caso di autunni molto piovosi si andava oltre con la messa a dimora dei semi e le rese ne risentivano. «Su sodo seminiamo favino, orzo, triticale, grano duro e tenero, pisello proteico – spiega Giansanti – in poco tempo le rese sono aumentate del 20% poi si sono stabilizzate. Sto provando anche con il girasole ma riscontro qualche problema con le infestanti». Più che in campo, il presidente di Confagricoltura Roma ha riscontrato i problemi maggiori a convincere i suoi collaboratori che il sod seeding era la strada giusta da seguire: «Pensavano che non si potessero ottenere rese adeguate senza arare, ma pian piano hanno dovuto ricredersi. Anche grazie al personale, negli anni abbiamo messo a punto dei protocolli precisi dalla semina al raccolto, usiamo la precision farming, tutte le macchine sono equipaggiate con navigatore satellitare».

Campania, ideale anche in collina
A Lacedonia, nell’alta Irpinia, quasi al confine con la Puglia, Salvatore Giannetta fa agricoltura conservativa (semina su sodo e minima lavorazione) da 13 anni. La sua azienda si estende per 200 ettari in una zona collinosa. I terreni sono prevalentemente argillosi, ma ci sono anche alcune aree di roccia calcarenite. Coltiva colza, ceci, grano, avena, mais e favino da sovescio, ottenendo circa 48 quintali per ettaro dai cereali. «Le rese sono simili a quelle che facevamo con la tecnica tradizionale – spiega Giannetta – ma i vantaggi della semina su sodo sono  tantissimi: il risparmio di carburante è  notevole, poi si limita l’erosione del suolo, una variabile importantissima in queste zone. Quando ho cominciato mi prendevano per matto, ma adesso un po’ tutti si stanno convertendo alla conservativa». Per i lavori in campo Giannetta utilizza un trattore John Deere 6930, una seminatrice Kuhn SDE 3000 alla quale ha fatto fare alcune modifiche per adattarla al meglio ai terreni che coltiva e una Gaspardo Directa 300.
Riguardo ai fondi messi a disposizione dai bandi regionali il nostro testimonial non ha dubbi: «Sono una boccata d’ossigeno per noi coltivatori, con i prezzi così bassi dei cereali. Senza questi contributi avremmo chiuso». In Campania la misura 10.1.4  concede 160 euro per ettaro per la semina su sodo di cereali e foraggere, elevabili a 400 se si piantano loietto, medica annuale e favino da foraggio. L’adesione al bando chiuso la scorsa primavera è stata buona.

Veneto, piace lo strip till
A Sommacampagna, in provincia di Verona, Marco Soave ha iniziato da qualche anno
a fare strip till sui suoi 70 ettari coltivati a mais e soia: «Sul mais c’è qualche problema
con la diabrotica ma non tornerei mai più indietro – afferma con sicurezza – per i
costi minori, per la possibilità di pianificare le lavorazioni e per le rese. Le cose più  importanti su cui concentrarsi quando si pratica questa tecnica sono l’irrigazione e le
rotazioni – sottolinea – io faccio irrigazione di precisione con le manichette e i sensori
di umidità». Questi i dati sull’ultimo raccolto di mais nei terreni di Soave: 5830, 170,4 q/ha al 20,2% di umidità; 6664, 203,2 q/ha al 26,1%; 6650, 204,6 q/ha al 31,4% ( danni da diabrotica); produzione appezzamento: 169,7 q/ha al 24%.

Con il vertical tillage l’acqua in campo non fa più paura
Gli agricoltori lo sanno bene, se costretti a entrare in campo con mietitrebbie o trattori quando i terreni sono bagnati (soprattutto in primavera), si creano carreggiate dove la semina diretta sarà molto difficile se non impossibile, mentre se le piante sono già spuntate moriranno soffocate o avranno una crescita difficile con rese ridotte. Perciò, quando serve, si potrebbe concedere la possibilità di fare ricorso a due tecniche ampiamente in uso negli Stati Uniti (in particolare in Nord Dakota), in Brasile e in Argentina.La prima è l’uso del decompattatore, attrezzo che lavora a una profondità di 40-50 cm e nell’avanzamento solleva il terreno, disgrega le zolle ma non ribalta il cotico, lasciando intatto lo strato superficiale con i depositi. Questa tecnica, inoltre, elimina la suola lasciata dalle lavorazioni precedenti, specialmente dall’aratro. La pratica, oltre a eliminare le carreggiate, permette alla pioggia di scendere più in profondità, evitando i ristagni nei periodi di precipitazioni intense e creando una riserva d’acqua che le piante sfrutteranno d’estate. In questo modo si può risparmiare sull’irrigazione. Ma potrebbe non bastare. Per aumentare il drenaggio dell’acqua, dopo aver eseguito la  decompattazione, si può far ricorso alla tecnica del vertical tillage, che consiste nell’utilizzare in campo un attrezzo con grandi dischi corrugati che passando sul terreno produce piccoli tagli verticali profondi da due a quattro centimetri. Ciò permette al terreno di asciugarsi più in fretta. Le due tecniche non influiscono sulla semina diretta, in quanto non ribaltano il terreno e aiutano la proliferazione dei lombrichi, essenziale per aumentare la fertilità del terreno. Uno dei promotori di questa soluzione è Alberto  Cavallini, agricoltore di Consandolo in provincia di Ferrara, dove coltiva mais, grano e soia su una superficie di 85 ettari, di cui 65 gestiti ormai da otto anni con semina diretta. «Ho sempre creduto in questo metodo – esordisce – senza lavorare il terreno risparmio circa 220 euro per ettaro l’anno a cui si aggiungono i contributi della misura 10.1.04. All’inizio le rese calano di circa il 10% – ammette Cavallini – un calo comunque ampiamente compensato da risparmio e contributi, inoltre, dopo qualche anno, la maggior fertilità del terreno riporta le rese ai livelli precedenti e anche superiori». Il vertical tillage permette quindi di seminare anche in condizioni climatiche difficili, è compatibile con la semina diretta perché lascia il residuo sul terreno, non ribalta il cotico e non crea l’effetto “suola” che impedirebbe il deflusso dell’acqua.

da Terra è Vita
Simone Martarello